Capossela è entrato in scena con un costume da uccellaccio, su un palcoscenico addobbato di sterpaglie
Ben dieci musicisti sul palco, eppure sabato al concerto di Vinicio Capossela la musica non sembrava l’elemento più importante della serata. Ciò che ha colpito è stata la presenza scenica degli artisti sul palco, per uno spettacolo che aveva anche molto di drammatico. Il pubblico di Astimusica era stato avvertito: «Il concerto evocherà la cultura della terra, il senso della festa, il sudore, la fatica».
E così Capossela è entrato in scena con un costume da uccellaccio, su un palcoscenico addobbato di spighe di grano, luminarie da sagre di paese, teschi di vacca. Da parte loro, i dieci strumentisti erano vestiti da mariachi, da schiavo romano, da esotico sacerdote, tutti con il compito di colorare la scaletta con le sonorità di cui il loro personaggio era ideale portatore.
Tratte in maggioranza dall’ultimo album “Canzoni della Cupa”, le canzoni sono partite con toni intimi per esplodere sempre più spesso in frenetici passaggi dominati da fiati e percussioni. Poi, «come quegli invitati ingombranti ai matrimoni che non puoi far finta di non vedere», ecco i classici: “Signora Luna”, in una versione che pareva suonata dagli Inti-Illimani e orchestrata da Ennio Morricone, tanto sapeva di spaghetti western.
Poi “Maraja” e “Che coss’è l’amor”, salutata dall’entusiasmo degli almeno 1500 presenti in piazza Cattedrale. A loro, un pubblico di ogni età che non ha smesso un attimo di ballare, l’invito di Vinicio a continuare a sorridere, anche in un periodo storico oscuro: «In questi giorni di orrore, ricordiamoci di celebrare la vita».
Il concerto si è avviato alla conclusione con altri due pezzi storici, “Il ballo di San Vito”, viscerale e forse un po’ improvvisato, e “Ovunque proteggi”, dedicata a tutti quelli che hanno perso la propria patria. Due ore tra le più intense di questa edizione di Astimusica.
Enrico Panirossi