“Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”, sosteneva Luigi Pirandello. Maschere, volti, querelle al veleno hanno caratterizzato l’ultima settimana del mondo “pallonaro”. Oggetto del contendere, ma non troppo, visto che il progetto è abortito sul nascere, la nascita della SuperLeague, un campionato europeo d’elite per venti club. Una decisione, quella intrapresa dalle corazzate del pallone, discutibile per le tempistiche, a ridosso delle fasi clou dei campionati nazionali, di Champions ed Europa League. A reagire all’unisono ci hanno pensato, eccetto rari casi, tutti gli addetti ai lavori. Un secco “no”, che ha indotto il dietrofront. A lanciare la “ritirata” le sei squadre inglesi coinvolte, a ruota hanno salutato le altre, lasciando Florentino Perez e Andrea Agnelli, principali fautori del progetto, con il cerino in mano.
Sulla nascita della SuperLeague di calcio è intervenuto anche, attraverso un pensiero espresso sui suoi “canali social”, il direttore amministrazione finanza e controllo del Livorno Calcio, l’astigiano Pier Paolo Gherlone, che su Twitter l’ha battezzata «l’ennesima dimostrazione che stiamo entrando in un mondo oligarchico, il potere anche nel calcio in mano a pochi». «La vera spinta che ha mosso i grandi club a creare questo progetto è quella di uscire dai sistemi di controllo dei bilanci delle società di calcio degli organi di revisione della Uefa, della Fifa e della Lega di Serie A per essere liberi di non rispettare il fair play finanziario e gli indici di indebitamento», sostiene l’astigiano che cura mensilmente i rapporti del Livorno con la Covisoc. «I bilanci dei grandi sodalizi rischiano di essere sovrastati dai debiti, meglio rifugiarsi in una competizione che garantisce introiti spropositati e pochi vincoli di bilancio».
Già, bilanci, fair play finanziario, tutti termini maledettamente attuali nel calcio di oggi e lontani anni luce da quello di soli vent’anni fa. Quello di allora era uno sport romantico, dove esistevano bandiere, le partite raccontate da “Tutto il calcio minuto per minuto” alla radio erano raccolte nel pomeriggio della domenica. Seguire l’evolversi dei match era una sorta di rito. Poi sono arrivate le “Pay Tv”, il calcio a pagamento a qualsiasi ora e giorno della settimana. Per i romantici è certamente una botta al cuore, tuttavia lo sport, come il mondo, si evolve rapidamente, non sempre per il meglio. Il calcio del 2021 è business, i club sono società per azioni. Nel mercato del pallone sono entrati i fondi di investimento e, paradossalmente, i creatori della SuperLeague, una kermesse dove la meritocrazia incide relativamente, l’Uefa e la Fifa, in antitesi tra loro, si somigliano parecchio. Lavorano per creare opportunità economiche, individuando in uno sport antico basi comuni a quelli dell’intrattenimento statunitense. Si cerca lo show, nel quale i ricchi diverranno sempre più potenti e i poveri sempre meno abbienti. Un’oligarchia sportiva. Un processo iniziato ben prima di pochi giorni fa. Quando la Lega ha scelto destinazioni “insolite” per la Supercoppa per introitare di più, l’Uefa ha chiuso gli occhi sul fair play finanziario non rispettato di City e PSG e sulle plusvalenze, la Fifa ha optato per i Mondiali in Qatar a novembre. Di certo gli ideatori della SuperLeague non ne escono bene, anzi. Un processo che è nato e si è sfaldato in 48 ore sa di iniziativa da “dilettanti allo sbaraglio”. Oppure, sotto sotto, era solo l’occasione di “battere cassa” e guadagnare benefit diversi dalle coppe europee. “Business is business”: il calcio di oggi ci piace meno ma quanti degli addetti ai lavori che hanno lottato per fermare i potenti sono disposti ad accettare concetti come il salary cap? Resta una constatazione ovvia: la magìa della storia, della “coppa dalle grandi orecchie”, non la si può cancellare con il denaro. Quella è la bellezza universale dello sport.
All’interno dell’edizione cartacea, consultabile anche online, sono presenti anche i pareri di Vasile Mogos e Josi Venturini