Cerca
Close this search box.
giuseppe robetto
Attualità
Galleria 
Granaio della memoria

Montafia e quell’aereo smontato in due ore dopo l’atterraggio di fortuna dell’aviatore

Una vicenda che non trova posto sui libri di storia ma che si tramanda di generazione in generazione

Di quelle storie minime (ma neppure poi così tanto) che nei paesi si tramandano di generazione in generazione ma che non sempre finiscono per trovare posto nelle pagine della Storia ufficiale.
Ma che, lette a distanza di tanti anni, hanno tutto il sapore di un’avventura da romanzo.
I fatti risalgono alla Seconda Guerra Mondiale, poco dopo l’armistizio dell’8 settembre. Protagonista è un capitano pilota dell’esercito italiano originario di Montafia, paese del Nord Astigiano.
Il racconto è affidato alla memoria di Valentino Tordella (nella foto di copertina), oggi 87enne ma all’epoca dei fatti un bambino con la spensieratezza che gli permetteva di non farsi sfiorare troppo dalle tragedie della guerra e con tanta curiosità per quello che gli accadeva intorno.
«Giuseppe Robetto, che noi chiamavamo Pino, all’epoca aveva 22 anni – racconta Tordella – ed era un ufficiale dell’aviazione. Me lo ricordo quando tornava a Montafia, in licenza: un bellissimo ragazzo con una bellissima divisa che faceva girare la testa a molte ragazze. Apparteneva ad una storica famiglia di Montafia che aveva sempre tenuto un negozio di alimentari in paese».
Profondamente patriota, Robetto, nella confusione che regnava nell’esercito dopo la firma dell’armistizio, pensò di fare ritorno a casa sua, a Montafia. Ma decise di farlo nel modo a lui più consono: per via aerea. In fondo tutti in paese, e in quelli vicini, si ricordano di lui e lo riconoscevano quando passava sulle sue colline durante addestramenti o missioni.
«Partì da Roma, con il suo apparecchio – racconta ancora Valentino – facendo rotta per Torino, ma a Genova dovette già fare un primo scalo per rifornirsi. Pensava di arrivare a Torino, ma non ci riuscì e quando vide che il carburante scarseggiava, pensò di atterrare nelle valli del suo paese, che conosceva bene. Un pomeriggio lo vedemmo girare un po’ sopra Montafia, noi ormai lo riconoscevamo, e poi vedemmo l’aereo scendere in picchiata e sentimmo un boato enorme».

«Abbiamo scoperto dopo perchè non fosse atterrato subito, quando ancora aveva un po’ di carburante – racconta invece Mauro Miglino, ragazzino che insieme a Tordella fu testimone diretto – Perchè sul prato c’era una contadina qua del paese che stava portando al pascolo le sue mucche. Lui non voleva certo schiantarsi nè su di lei, nè sugli animali, così preziosi per la sopravvivenza delle famiglie. Ha provato più volte a farle segno di spostarsi, ma lei pensava che lo salutasse ed è rimasta lì con il suo pascolo. Comunque è riuscito a trovare un modo per atterrare salvando le mucche e sè stesso».
Robetto era riuscito a far atterrare l’aereo nella valle che costeggia il viale che sale in paese, passando di fianco alla cascina Costafara, sotto il cimitero.
Per fermarsi senza uccidersi infilò l’aereo in un fossato per rallentare la corsa e lo fece sbattere contro una pianta.
In un attimo tutto il paese era in valle, fra i rottami dell’aereo da cui spuntò il capitano sano e salvo che si diresse a casa sua.
«Noi ragazzini osservammo tutto da uno dei portoni della piazza che davano sulla valle». E quello che videro ha dell’incredibile: «Bisognava far sparire l’aereo, anche per paura di rappresaglie, così tutti andarono giù, con pinze, tenaglie, chiavi inglesi e in due ore l’apparecchio era completamente smontato e ognuno era tornato a casa con un pezzo. Neppure l’ombra di quell’atterraggio di fortuna».

«Lui era considerato un fascista e pochi giorni dopo il suo arrivo fu raggiunto da alcuni partigiani che lo fecero prigioniero in una cascina di Viale, a casa di un suo amico – ricorda ancora Tordella – Il giorno dopo quattro ufficiali partigiani lo processarono e il verdetto non poteva che essere di morte, visto che lui non rinnegava nulla di quanto fatto nell’esercito. Ma quei quattro lo conoscevano bene, erano stati amici d’infanzia, così trovarono il modo di salvarlo.
Il fratello di Robetto, Giacomo, detto “Giacolino” era stato fatto prigioniero dai tedeschi durante un rastrellamento e si trovava in un campo di lavoro tedesco. Così gli offrirono di graziarlo se fosse andato a riprendersi suo fratello usando i suoi lasciapassare militari».
E così fu: Robetto reindossò la sua splendida uniforme da ufficiale, si fece accompagnare da un tedesco, trovò il campo di lavoro in cui era prigioniero il fratello e lo liberò, riportandolo a Montafia.
Appena la guerra terminò, l’aviatore emigrò in Argentina e poco dopo lo raggiunse anche Giacolino. Lì Pino, che per tutti laggiù diventò “Pepito”, si guadagnò da vivere irrorando in aereo i campi coltivati, il fratello facendo l’imbianchino.
Tornarono a Montafia solo da morti e riposano nel cimitero del paese. Ma il ricordo di quell’atterraggio da film rimane nella memoria popolare del paese e sono ancora tante le case che custodiscono un pezzo di quell’aereo.
Come quella di Annalisa Clari, figlia di Giovanni, meccanico del paese all’epoca dell’avventuroso atterraggio.
Oggi in casa ha ancora la cloche e qualche anno fa aveva restituito l’elica a un discendente di Robetto che aveva visitato Montafia.

Condividi:

Facebook
Twitter
WhatsApp

Le principali notizie di Asti e provincia direttamente su WhatsApp. Iscriviti al canale gratuito de La Nuova Provincia cliccando sul seguente link

Scopri inoltre:

Edizione digitale