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Attualità
Intervista

Il Vescovo in tempo di pandemia: «Non scoraggiatevi mai, il Covid non è l’ultima parola»

Nell’intervista, monsignor Prastaro afferma sicuro che questa pesante prova porterà ad una “guarigione collettiva”

Il silenzio è ovattato, chiuso tra volte affrescate e quadri che trasudano storia millenaria. Il lockdown spegne anche i rumori della strada. Monsignor Marco Prastaro, vescovo di Asti, è seduto alla scrivania del suo ufficio al primo piano del palazzo episcopale. Sorriso cordiale e aperto, del pastore che di dover guidare una diocesi scossa dalla pandemia. «Vedo un 2021 dove dobbiamo tenere duro, sicuri che da questo grande problema ne usciremo. Allora sarà la festa della vita, la rinascita».

Questa è la seconda Pasqua blindata. Che festa sarà?

Sarà più depressa. Siamo tutti più tristi e scocciati. Nel 2020 il contesto era diverso. Vivevamo nella quasi-certezza che “ne usciremo” e “andrà tutto bene”. Invece, le cose sono andate diversamente. Adesso, però, dobbiamo tenere duro perché quando ne usciremo sarà il bene che trionfa sul male, la gioia sulla tristezza, Gesù che ci libera. D’altronde sta arrivando la primavera, che è festa di vita, la natura si risveglia. Dobbiamo fare lo sforzo di credere che questo brutto momento passerà. Il Covid non è l’ultima parola: dobbiamo ridare voce alla nostra esistenza.

Viviamo, però, una crisi che rischia di minare le coscienze, il nostro intimo.

Come quando eravamo ragazzi e si cadeva, rialzandoci le ginocchia erano sbucciate. Ecco, da questa esperienza ne usciremo sbucciati. Ci vorrà del tempo per riprenderci, ma dal male dell’isolamento che abbiamo vissuto, e viviamo, dovrà rinascere la speranza. Sappiamo di aver perso rapporti sociali, si sono rovinati affetti famigliari, i ragazzi non hanno più vissuto la propria socialità. Ma dopo il Covid assisteremo ad una guarigione collettiva: ne usciremo migliorati, consci che nella nostra vita ci sono cose più importanti di quanto avevamo creduto sino ad ora.

Un percorso lungo e faticoso.

Sì. Ci sarà tanto lavoro da fare, in ogni ambito. Dovrà venire fuori il meglio di noi stessi, la solidarietà, la vicinanza. Questi mesi ci hanno spremuto, ma dall’essere umano quando lo spremi esce il meglio di sé. La capacità di fare il bene è scritta nell’animo umano. Il pericolo è chiuderci in noi stessi: qui, invece, si gioca il nostro futuro. La nostra mèta è prendersi cura degli altri, di chi non ce la fa.

Una crisi che, oltre a colpire nel profondo della persona, ha effetti dirompenti sulla vita quotidiana.

Abbiamo constatato che nei mesi le persone venute a bussare alla porta delle nostre parrocchie e della Caritas sono aumentate di molto, così come ai nostri centri di ascolto. Abbiamo aiutato tutti, e per ora siamo sopravvissuti anche grazie alla moratoria sui licenziamenti. Più avanti non sappiamo come sarà. La responsabilità è della classe politica che non deve andare avanti a slogan ma a fatti concreti. La politica deve mettere al primo posto le persone, rinunciando a qualcosa per il bene della comunità.

In questo quadro come vede l’Astigiano?

Asti sta ricercando una sua nuova identità e il cammino non deve interrompersi. Non è una città povera, le risorse ci sono. Chi le ha, però è il momento le metta a disposizione, investa, rischi qualcosa per il bene collettivo. Chi ha responsabilità deve guardare oltre il proprio interesse. Occorre un cambio di mentalità deciso.

La Chiesa che cosa può fare in questo contesto?

Ci siamo espressi al tavolo congiunto proponendo alcuni progetti che vanno nel senso della crescita collettiva. Il nostro compito sarà vigilare affinchè il denaro del Recovery Fund non venga sprecato o, peggio, ci sia qualcuno che ne approfitti. Questa è un’occasione unica per tutti. Anche la Caritas ha supportato il cammino di molte persone con progetti di inserimento lavorativo, tirocini, anche insegnare a cercare lavoro. Non vogliamo, e non possiamo, sostituirci allo stato, ma indicare una strada su cui camminare questo sì. La soluzione ha bisogno di altri soggetti, ma noi, per quanto possibile, ci siamo.

Tema migranti. Lei è stato missionario: come legge questa emergenza.

E’ un tema divisivo, così come parlare di emergenza. Molto spesso è stato usato per altri fini, politici. Paradossalmente, con l’arrivo del Covid il tema migranti è sparito perché, ora, non restituisce più risultati di visibilità elettorale. Le partenze dall’Africa sono diminuite, ma abbiamo perso un’occasione per fare scelte vere, dalla regolarizzazione al controllo sanitario. Dobbiamo farci vicini a loro, non per un ritorno di immagine ma come esseri umani. Il 36% degli stranieri immigrati in questi mesi ha perso il lavoro: questa è una grossa criticità. Dobbiamo fare uno sforzo per accoglierli come esseri umani e non “cose”, così come capire perché fuggono dalla loro terra.

Migranti come risorsa, dunque.

Esatto. Anche per la Chiesa. La nostra Chiesa fa fatica, loro invece portano freschezza e vitalità. Dobbiamo imparare a guardarli con occhio positivo, come opportunità anche se di religione diversa. Che, poi, la maggior parte sono ortodossi. L’integrazione è un vantaggio per tutti.

Che cosa le ha lasciato l’esperienza in missione?

Non vivo di ricordi. Metto in pratica qua i miei valori che sempre mi hanno guidato. In Kenya ho imparato, però, una vita fatta di cose concrete. Ho incontrato persone che, seppur nella povertà, era portatrici di positività. E, poi, una grande esperienza religiosa in cui capisci che vale la pena vivere la vita.

La pandemia ha influito sulla religiosità delle persone?

Abbiamo registrato un calo di presenze alla messa domenicale, meno bambini e dunque meno genitori. C’è paura diffusa. Manca l’aspetto relazionale che rende l’esperienza di vita significativa. E, poi, ci siamo accorti di essere entrati nell’epoca in cui “la cristianità è finita”. E’ un tema di cui si parla da anni, ma non ne avevamo mai avuto l’esatta percezione. La pandemia ha accelerato il processo. La Chiesa deve riposizionarsi dentro questo tempo. Ne stiamo parlando e confrontandoci. Il mondo è cambiato, dobbiamo provare a vivere in maniera diversa, riscoprire l’essenzialità dei rapporti e di vita. Non è un fatto tragico: dobbiamo, solamente, cogliere l’opportunità di vivere coerentemente ciò che uno crede.

Che Pasqua augura agli astigiani?

Non scoraggiarsi. Il Covid non è l’ultima parola. Non facciamoci sconfiggere da rabbia e delusione, bensì guardare avanti e tirare fuori il meglio di noi stessi. Pasqua è resurrezione, è vita che Dio ci offre.

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