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Le mie follie per suonare con Conte,anche se non conoscevo una nota
Cultura e Spettacoli

Le mie follie per suonare con Conte,
anche se non conoscevo una nota

In occasione della conversazione che domenica vedrà ospite Bruno Gambarotta a Passepartout en hiver, riproponiamo ai lettori alcuni passaggi tratti dal libro "Saldi di stagione". Uscito nel

In occasione della conversazione che domenica vedrà ospite Bruno Gambarotta a Passepartout en hiver, riproponiamo ai lettori alcuni passaggi tratti dal libro "Saldi di stagione". Uscito nel 1992, è un appassionato omaggio a luoghi e figure legate ad Asti. Gustosissimi i ricordi su Paolo Conte, amico di lunga data dell'autore.

«Lussureggiava il mare e il mondo delle donne…». Sul pianoforte di Paolo c'è scritto Cerrato. Al catechismo, alla domanda: chi ti ha creato? rispondevamo in coro: Monsù Cerrato. Ai ragazzi della parrocchia di San Martino che facevano la comunione la domenica mattina davano come premio un panino. Perché a noi di San Secondo niente? chiedevamo. Perché quelli di San Martino sono delle ligere, senza il panino non vengono in chiesa. È da allora che ho imparato a odiare la parabola del figliol prodigo. Paolo canta: «ragazzi-scimmia del jazz, così eravamo noi…» Ho fatto follie per entrare a far parte del primo complessino jazz messo su da Paolo: così come non sapevo giocare a pallone, non sapevo una nota di musica. Un giorno tutta la band è piombata a casa mia: abbiamo deciso che devi suonare la cornetta.

Avevano visto nella vetrina di un negozio di musica (in corso Alfieri!) una tromba di seconda mano, un vero affare nel quale avrei dovuto investire tutti i miei risparmi. In corteo siamo andati al negozio, mi hanno dato lo strumento e io l'ho impugnato come avevo visto fare da Louis Armstrong nelle foto sulle copertine dei dischi; ho cominciato a soffiarci dentro. Niente. Non usciva niente. Mi incitavano, mi battevano amichevoli pacche sulle spalle, il negoziante mi mostrava la sua bocca a culo di gallina: niente da fare. Ripiegammo sulla batteria ma quanto a comprarla era fuori discussione. Il complesso si esibiva ? gratis ? nelle sale da ballo quando l'orchestra titolare si prendeva un quarto d'ora di riposo.

Noi aspettavamo pazienti il nostro turno, in piedi, la schiena contro il muro, così i camerieri non pretendevano le consumazioni. Quando toccava a noi, il batterista mi affidava il suo strumento con mille raccomandazioni e mi permetteva di usare solo le spazzole. Dopo due uscite, il gruppo decise all'unanimità che c'era assoluta necessità di avere un press-agent mentre della batteria si poteva fare benissimo a meno, anzi il sound sarebbe migliorato. Io dissi: posso fare tutte e due le cose! E le foto? Come fai a fare le foto e a suonare la batteria?

«La prima donna era un lampo … lampo di luna sul giorno, un universo, un enigma, un lungo aspettami e torno». Dio, che felicità! Da ragazzi leggevamo gli scrittori americani tradotti da Pavese e i suoi saggi su Sherwood Anderson (Middle West e Piemonte) e pensavamo di essere nati nel posto sbagliato, che non avremmo mai potuto essere America. Adesso invece, grazie a Paolo Conte, abbiamo capito che ogni posto può essere l'ombelico del mondo. Basta avere la rara fortuna di trovare sulla propria strada un amico capace di creare dei miti…

«Attenzione al secondo binario. Treno in transito». Il merci che attraversa in piena velocità la stazione di Asti straccia la nebbia portata dal Tanaro. È sabato notte, in fondo alla banchina deserta una ragazza vestita di rosso canta a squarciagola. Per farsi coraggio. Non capisco quello che canta, ma non è una canzone di Paolo Conte. La nebbia ritorna a folate e abita i ricordi degli amici di Paolo. Una sera di nebbia come questa Ottavio Coffano era in macchina con lui: andavano a Torino a sentire del jazz. Guidava Coffano, che a un certo punto si è messo a cantare quella canzone che fa: «Solo me ne vo per la città…». «Ferma! Ferma!» ha urlato Paolo. Coffano ha inchiodato, Paolo è sceso: «E adesso vai avanti da solo. Questa canzone porta sfiga».

In testa alla hit parade delle canzoni che portano male secondo Paolo Conte c'è Lili Marlene che è in grado di farlo scappare via da qualunque ambiente se qualcuno accenna a cantarla, e Il valzer delle candele, una stilettata al cuore. Fin da ragazzo Paolo Conte ha difeso la sua vita privata con una fitta cortina fumogena fatta di silenzi, depistaggi, autoironie. Tutto inutile anche perché, trattandosi di un artista, vive dentro la contraddizione del nascondersi agli sguardi indiscreti e dell'esibirsi. Anche se le sue canzoni non sono autobiografiche in senso stretto: sono proiezioni oniriche, storie fantasticate e non vissute, messe in scena sul palcoscenico del teatrino della provincia. Il suo legame con Asti è fortissimo, indistruttibile: lui stesso parla di un cordone ombelicale che si tende man mano che si allontana fino a costringerlo a tornare indietro. Asti ha uno speciale legame con l'America; i grandi jazzisti italiani, se non sono emiliani, sono di queste parti: Gianni Basso, Valdambrini, Cuppini. Tutti sognano l'America ma nessuno si sogna di andarci.

Per Paolo anche gli oggetti hanno un'anima e se gli capita di sfiorare l'angolo di un tavolo deve toccare anche gli altri tre, possibilmente senza farsene accorge-re. Prima abitava al secondo piano di una casa che ne aveva tre. Uscendo faceva in modo, con un delicato lavoro di gomiti, di chiudere la porta senza toccare la maniglia. Se per disgrazia sfiorava il metallo, doveva salire al terzo piano e scendere al primo per completare i contatti e ristabilire l'equilibrio cosmico. Paolo è abbonato a una rivista intitolata Penombra, riservata a esperti solutori di rebus. E lui lo è: ricorda Ottavio Coffano che andavano a Bra a cena da un avvocato che li accoglieva sulla soglia di casa proponendo un enigma e non li lasciava entrare fintantoché Paolo non l'avesse risolto.

Una sera li accolse dicendo: «Due e sei. Il polpaccio sinistro». Paolo ci pensò su e poi diede la risposta esatta: «La piovra». Io devo ancora capirlo adesso. Gabriella Forno ricorda gli inizi, quando Paolo radunava, pochi amici attorno al pianoforte e diceva: «Proviamo a inventare delle storie senza capo né coda ma che abbiano un motivo conduttore». Gabriella si guardava attorno, respirava l'atmosfera di quella casa, con le abat-jour, le opalines, i rumori ovattati, il giardino al di là dei vetri, gli antichi riti rispettati e pensava: le storie che cerchiamo sono qui.

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