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Mauro Camoranesi, la Juve, il Mondiale e il sogno CR7

Sull’edizione di venerdì 6 luglio l’intervista completa al campione del mondo 2006

Mauro Camoranesi

Corsi e ricorsi della storia. Mi accomodo nel dehor del “Circolo Villa-Park” di Villafranca d’Asti esattamente 12 anni dopo la magica notte di Dortmund. Il 4 luglio 2006 l’Italia del pallone festeggiava la vittoria ai supplementari contro la Germania al grido “Andiamo a Berlino”, l’esultanza di Grosso dopo l’1-0 e la folle corsa di Del Piero ad abbracciare virtualmente la moglie Sonia in tribuna sono tra le immagine iconiche degli ultimi vent’anni di calcio italiano. Come non ricordare però cosa accadde pochi giorni dopo, quando gli azzurri di Lippi sconfissero ai rigori la Francia e alzarono al cielo il trofeo di campioni del mondo? Come scordare i concitati minuti successivi, quando il “parrucchiere della squadra” Massimo Oddo tagliò i lunghi capelli di Mauro German Camoranesi? Ed è per una congiunzione astrale che, esattamente 12 anni dopo la semifinale della storia, ho l’opportunità di sedermi al tavolo, per un caffè, con l’esterno offensivo di Tandil, l’argentino più italiano che conosca, un cittadino del mondo. Camoranesi mi raggiunge, ha lo stesso sorriso, gli stessi occhi vivaci di quando lo ammiravo in maglia bianconera, e il pensiero va subito a quei giorni di felicità, mentre nel 2018, al Mondiale di Russia, l’Italia purtroppo non c’è: «Sono emozioni indelebili – racconta Mauro – Vincere il Mondiale è il traguardo a cui aspira ogni sportivo. Ricordo quei giorni, concitati, intensi, emozionanti, ma il sapore del successo lo gusto con maggior piacere oggi, che ho smesso di calcare i campi. Gli atleti non hanno tempo di godersi sino in fondo le vittorie, conclusa una manifestazione c’è un nuovo traguardo da raggiungere. Ora che alleno, l’immagine della nostra impresa è una delle ricchezze più grandi del mio percorso da sportivo». Ogni carriera è costellata da vittorie e sconfitte, ma in fondo, parafrasando il grande artista astigiano Giorgio Faletti, scomparso purtroppo proprio il 4 luglio del 2014, “l’importante non è quello che trovi alla fine della corsa, ciò che conta è quello che provi mentre corri”: «Sono decisamente d’accordo, ho vinto e perso tante finali, ma ciò che più mi rende orgoglioso e l’averle raggiunte. Diventare un calciatore professionista è un traguardo incredibile, riuscire anche solo a giocare in Serie C lo è. Ed è per questo che sono un uomo fortunato».

All’interno del nostro giornale potete trovare l’intervista completa.

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