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Cultura e Spettacoli

"Rifiutai di caricare le bombe sugli
aerei nemici", il racconto di Oreste

Da poco novantenne, il reduce di guerra Luigi Pavese – meglio noto come Oreste – racconta la sua giovinezza segnata dalla guerra: il campo a Cuorgné, la partenza per la Sicilia, la prigionia in Africa. Qui gli inglesi offrivano pasti migliori a chi accettava di lavorare. "Ma per un bel po' ci siamo rifiutati di caricare sugli aerei le bombe che poi sarebbero state sganciate sull’Italia"…

Filippo Luigi Pavese (ma nessuno lo conosce con questo nome perché tutti lo chiamano Oreste) il 12 dicembre ha compiuto 90 anni. Abita alle cascine Modena di Bricco Roasio, una frazione di Serravalle e gode di un’eccezionale memoria e lucidità. Le gambe lo fanno tribolare un po’, non può più andare nella vigna a dare il verderame e neanche nel bosco a spaccare la legna, ma tutto sommato non va male. Adesso che fa freddo il posto migliore per passare le giornate è in cucina, seduto al tavolo e poco distante dalla stufa, dove è piacevole ricordare le vicende della giovinezza che, essendo nato nel 1922, è stata inevitabilmente devastata dalla guerra.

“Sono partito per il militare il 22 gennaio del 1942 e mi hanno mandato in artiglieria da montagna, nella Divisione “Assietta”. Al termine del campo a Cuorgnè, il 29 giugno 1942 siamo partiti per la Sicilia, dov’era dislocata la Divisione. Dopo un lungo viaggio in tradotta, siamo arrivati allo Stretto di Messina, poi in Sicilia, dove siamo stati mandati a Salemi, Palermo, Santa Ninfa, Enna.

Gli spostamenti si facevano solo di notte, per non farsi mitragliare dagli aeroplani e di giorno ci nascondevamo sotto gli ulivi. Il 22 luglio gli Americani ci hanno presi prigionieri a Bagheria, ma non ci sono stati né morti né feriti. Per noi la libertà era finita, perché a Porto Empedocle siamo stati imbarcati per l’Africa, dove siamo stati affidati agli inglesi che ci hanno tenuti nei campi di Biserta, Tunisi, Orano, Sfax e Algeri. I prigionieri che accettavano di lavorare per gli alleati mangiavano di più, ma io ed alcuni amici per un bel po’ di tempo ci siamo rifiutati di caricare sugli aerei le bombe che poi sarebbero state sganciate sull’Italia.

Alla fine anche noi abbiamo deciso di lavorare, anche se gli Inglesi ci trattavano con disprezzo e sparavano nei piedi di chi usciva dalla fila; soprattutto, abbiamo sempre patito la sete, perché mancava l’acqua e quella poca che ci davano veniva dissalata dal mare. Alla fine della guerra, siamo stati imbarcati su di una nave indiana, la “Maloia”, che ci ha portati a Napoli.” Che cosa ricorda del ritorno in Italia? “In prigionia non speravamo di tornare e ogni tanto ci interrogavamo sul nostro destino. Non avevo notizie da casa e non ho più potuto vedere mio padre, morto nel gennaio del 1943. A Napoli mi hanno chiesto se volevo diventare carabiniere, dato che avevo la quinta elementare, ma io volevo solo tornare alle mie colline e sono arrivato ad Asti la sera del 30 novembre, con altri amici.

Abbiamo mangiato qualcosa in via Prandone, poi abbiamo aspettato l’alba alla stazione: gli altri sono saliti sul treno e io mi sono incamminato verso casa. Verso Callianetto ho sentito una fisarmonica e le campane della chiesa di Sant’Andrea che suonavano, poi ho incontrato due cugini che andavano a lavorare. Nel cortile di casa erano già tutti ad aspettarmi e mi hanno fatto una gran festa.” E poi? “Ho lavorato da muratore e da garzone in campagna, a Vigliano, poi sono entrato in ferrovia: la terra che avevo mi ha dato solo fatica, ma mi piaceva andare nella vigna a dare il verderame, anche a piedi scalzi quando la terra era bagnata e non si potevano tenere le scarpe.”

Un suo rammarico è il non aver avuto figli, perché rimasto vedovo troppo presto: oggi vive con Giuseppina e nella stessa casa abitano anche la figlia di lei, Alessandra, ed il compagno Igor, per cui la compagnia non manca. Per via delle ginocchia non riesce più a ballare, come ha fatto per settant’anni di fila: “Una volta le occasioni per ballare non mancavano. Tutti i paesi qui intorno avevano la loro musica: noi mettevamo il ballo in cortile e ogni famiglia ospitava a cena un suonatore. Quelli di San Grato erano proprio in gamba, quelli di Settime così così.”

Renato Romagnoli

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